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Omosessualità e omofobia: la mia intervista a Radio Lombardia


Qualche settimana fa, Radio Lombardia mi ha invitata a parlare (e gesticolare!) di omosessualità e omofobia. Di seguito trovate la trascrizione dell'intervista.

Sono grata di avere avuto la possibilità di raccontare ciò che si può fare quando una persona soffre rispetto all'orientamento sessuale proprio o di qualcuno vicino. Magari vi sentite preoccupati, arrabbiati, confusi, ma in nessun modo siete sbagliati. Potete chiedere aiuto.

Buona lettura!

1) Cosa s'intende per "psicologia dell'omosessualità”?

La psicologia dell’omosessualità si occupa, da un lato, di studiare il modo in cui le persone gay, lesbiche o bisessuali sviluppano la propria personalità e identità sessuale; dall'altro, in un’ottica di inclusione e valorizzazione delle differenze, di progettare interventi e diffondere buone pratiche volte alla promozione della salute e del benessere delle minoranze sessuali.

Per altro…

La ricerca ha escluso l’esistenza di differenze psicologiche determinate dall'orientamento sessuale in sé. Quello che ha riscontrato, invece, è che le persone con orientamento non eterosessuale sperimentano in misura maggiore alcune difficoltà legate al fatto di vivere e crescere in una società che fondamentalmente ancora non le accetta).

2) Da un punto di vista psicologico, perché per alcuni è così tanto difficile accettare questa condizione? Penso, ad esempio, a chi si costringe a reprimere la propria sessualità, i ragazzi che continuano ad avere delle fidanzate e viceversa...

Il motivo principale è che, ancora oggi, viviamo in una società che considera l’eterosessualità come l’unico orientamento “normale" (il termine tecnico sarebbe eterosessista) e che disconosce e sminuisce sistematicamente gli altri possibili orientamenti.

Crescere in un ambiente omofobo, dove chi non si riconosce come eterosessuale viene di fatto e a vari livelli (personale, sociale, politico...) discriminato, può produrre in queste persone un disagio di fondo più o meno doloroso: la sensazione di essere sbagliati o peggio ancora malati. Questa condizione prende il nome di omonegatività o di omofobia interiorizzata e può comportare diverse difficoltà a livello psicologico: ansia, depressione, bassa autostima, sentimenti di solitudine, difficoltà relazionali con i partners, ma anche con i pari o i genitori.

In altre parole, in una società omofoba è molto più difficile essere semplicemente se stessi. Per questo alcune persone, non solo tra i più giovani, arrivano a scegliere di tenere nascosto il proprio orientamento, fingendo un’esistenza diversa, magari in linea con le aspettative altrui, o mantenendo una doppia vita…che alla lunga, però, non fa che aumentare il disagio di cui parlavamo prima.

3) Cosa può fare un professionista per chi ha problemi di non accettazione?

Come da Codice Deontologico, la prima cosa è sicuramente quella di accogliere l’orientamento sessuale della persona, rassicurandola sul fatto che l’omosessualità o la bisessualità non sono assolutamente delle condizioni patologiche, ma delle possibili varianti della sessualità umana. La sofferenza riportata dalla persona LGB non è in alcun modo legata all'orientamento sessuale in sé, ma è dovuta all'interiorizzazione dello stigma associato alla non eterosessualità. Sembra scontato, ma non lo è: ci sono ancora tante persone che non chiedono aiuto per paura di incontrare un professionista che li giudichi, li rifiuti o li confermi nell'atroce dubbio di essere “malati”.

Nella pratica, ciò che lo psicologo fa in questi casi è:

- aiutare la persona ad affrontare ciò che le impedisce di esprimere appieno la propria sessualità

- supportarla nella realizzazione di un progetto di vita personale e autentico (ad es. come individuo, nella coppia, verso la genitorialità, ecc.).

Inoltre...

mi preme ribadire anche ciò che il professionista, in nessun caso, può o deve fare: proporsi di curare o di riparare la condizione non eterosessuale. Le cosiddette terapie riparative non hanno alcun fondamento scientifico.

4) In che modo i genitori possono 'agevolare' i figli che non riescono a parlare della propria sessualità?

Comunicare il proprio orientamento sessuale, cioè fare “coming out”, richiede un grande lavoro di presa di consapevolezza di chi si è e una certa sicurezza che, una volta detto, gli altri continueranno ad amarci come prima. Può volerci tempo.

Un genitore o un qualsiasi adulto di riferimento (un insegnante, un educatore, un allenatore, ecc) che sente di voler facilitare questo processo deve certamente rispettare i tempi personali del ragazzo o della ragazza, ponendosi in una posizione di ascolto.

Nel frattempo, quello che si può fare è cercare di approfittare o costruire delle occasioni di dialogo e confronto in cui affrontare, in un clima emotivo accogliente e senza pregiudizi, il tema della diversità sessuale e di genere.

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